Tutto cominciò all'inizio del secolo scorso, quando, con la nascita delle prime swing e jazz band, i chitarristi sentivano sempre di più la necessità di competere con il volume degli altri strumenti. Tanto che, per far fronte ad una musica sempre più rumorosa, vennero costruite chitarre più grandi con i manici rinforzati e i musicisti iniziarono ad usare corde in metallo e plettri sempre più grossi. Ma ancora non bastava, sulle ritmiche le chitarre si riuscivano appena a percepire, figuriamoci sugli assoli...
Le chitarre elettriche ancora non erano state sviluppate e l'idea di una chitarra potente ma dalla voce chiara era il chiodo fisso di un liutaio italiano, Mario Maccaferri.
Fortunatamente Maccaferri ebbe modo di conoscere Henry Selmer, proprietario dell'ononima azienda di strumenti musicali, che fu entusiasta delle idee del liutaio italiano, e decisero di realizzare insieme una chitarra innovativa.
Il primo modello (detto "Concerto"), introdotto nel 1932, si basava su una specie di risonatore interno ed era caratterizzato da una buca a D e dodici tasti al di fuori del corpo, ma non ebbe molto successo; il modello successivo, chiamato "Orchestre", venne invece molto apprezzato soprattutto dai musicisti francesi. Nel 1934 Mario Maccaferri lasciò la Selmer, ma la sua chitarra venne ulteriormente sviluppata da altri liutai, che eliminarono il risonatore e introdussero una piccola buca ovale al posto di quella grande a forma di D, aumentarono la scala e il numero di tasti al di fuori del corpo, che diventarono quattordici.
Quasi tutte le Selmer avevano un top in abete e fasce e fondo in palissandro indiano laminato, una tastiera in ebano su un manico in noce ed una cordiera in metallo su cui spiccava una grossa "S" da cui partivano le corde che si appoggiavano un su caratteristico ponte allungato in ebano, e si distinguevano per un suono chiaro e potente.
Le Selmer suscitarono l'interesse di molti musicisti tra gli anni '30 e '50, soprattutto in Francia dove Django Reinhardt univa l'antica tradizione musicale zingara del ceppo dei Manouches con il jazz americano. Il suo stile, sviluppato per compensare la perdita di alcune dita della mano sinistra causata da un incendio, è caratterizzato da una particolare tecnica della mano destra e dall'uso di grandi plettri.
Le chitarre elettriche ancora non erano state sviluppate e l'idea di una chitarra potente ma dalla voce chiara era il chiodo fisso di un liutaio italiano, Mario Maccaferri.
Fortunatamente Maccaferri ebbe modo di conoscere Henry Selmer, proprietario dell'ononima azienda di strumenti musicali, che fu entusiasta delle idee del liutaio italiano, e decisero di realizzare insieme una chitarra innovativa.
Il primo modello (detto "Concerto"), introdotto nel 1932, si basava su una specie di risonatore interno ed era caratterizzato da una buca a D e dodici tasti al di fuori del corpo, ma non ebbe molto successo; il modello successivo, chiamato "Orchestre", venne invece molto apprezzato soprattutto dai musicisti francesi. Nel 1934 Mario Maccaferri lasciò la Selmer, ma la sua chitarra venne ulteriormente sviluppata da altri liutai, che eliminarono il risonatore e introdussero una piccola buca ovale al posto di quella grande a forma di D, aumentarono la scala e il numero di tasti al di fuori del corpo, che diventarono quattordici.
Quasi tutte le Selmer avevano un top in abete e fasce e fondo in palissandro indiano laminato, una tastiera in ebano su un manico in noce ed una cordiera in metallo su cui spiccava una grossa "S" da cui partivano le corde che si appoggiavano un su caratteristico ponte allungato in ebano, e si distinguevano per un suono chiaro e potente.
Le Selmer suscitarono l'interesse di molti musicisti tra gli anni '30 e '50, soprattutto in Francia dove Django Reinhardt univa l'antica tradizione musicale zingara del ceppo dei Manouches con il jazz americano. Il suo stile, sviluppato per compensare la perdita di alcune dita della mano sinistra causata da un incendio, è caratterizzato da una particolare tecnica della mano destra e dall'uso di grandi plettri.
Il liutaio inglese David J. Hodson, morto nel 2007, è conosciuto tra gli amanti del jazz manouche, noto anche come gipsy jazz, come costruttore di chitarre di ottima fattura, realizzate ad immagine e somiglianza di quelle usate da Django.
Le Hodson sono tutte caratterizzate dalla presenza di un top e un back molto sottili, ricoperti da un finissimo strato di vernice, che ne esalta le vibrazioni ma al tempo stesso le rende molto sensibili all'umidità, per cui necessitano, come tutti gli strumenti acustici di qualità, di molte attenzioni.
La mia 503 SR ha un bel top rigido in abete rosso sitka, dalle venature fitte e regolari, spesso 1,7mm, su cui spiccano il piccolo buco ovale, il tipico ponte in ebano e la cordiera metallica che, in perfetto stile gipsy jazz, ha incisa la "S" di Selmer.
Il fondo e le fasce sono in palissandro indiano laminato, di colore marrone chiaro attraversato da striature molto più scure, e rivestite internamente da mogano africano, noto col nome di Kyha.
All'interno del corpo un pickup Big Tone permette di amplificare lo strumento.
La tastiera, quasi piatta, è in ebano liscio e scuro e poggia su un manico in noce più spesso delle chitarre moderne e leggermente squadrato.
La paletta, in perfetto stile manuche, è ben lavorata e accoglie le meccaniche Schaller dorate e dalle chiavette in plastica.
Ha un aspetto decisamente retrò, piuttosto affascinante, ma anche essenziale, come richiede il genere musicale per cui è stata creata, ed è adatta ad essere suonata con vigore: volume discretamente alto ma note chiare e ben distinte caratterizzate da una sorta di riverbero naturale della cassa.
L'action non è proprio bassa, specie per chi viene dalle chitarre elettriche, ma può essere abbassata; tuttavia è lo stesso Hodson che sconsiglia di farlo. Questo, insieme al suo grosso manico e ai plettri spessi con cui devono essere pizzicate le sue corde, non la rende semplice da suonare. Tuttavia la 503 SR ti premia con le note che solo le migliori chitarre manouche sono in grado di produrre.
Le Hodson sono tutte caratterizzate dalla presenza di un top e un back molto sottili, ricoperti da un finissimo strato di vernice, che ne esalta le vibrazioni ma al tempo stesso le rende molto sensibili all'umidità, per cui necessitano, come tutti gli strumenti acustici di qualità, di molte attenzioni.
La mia 503 SR ha un bel top rigido in abete rosso sitka, dalle venature fitte e regolari, spesso 1,7mm, su cui spiccano il piccolo buco ovale, il tipico ponte in ebano e la cordiera metallica che, in perfetto stile gipsy jazz, ha incisa la "S" di Selmer.
Il fondo e le fasce sono in palissandro indiano laminato, di colore marrone chiaro attraversato da striature molto più scure, e rivestite internamente da mogano africano, noto col nome di Kyha.
All'interno del corpo un pickup Big Tone permette di amplificare lo strumento.
La tastiera, quasi piatta, è in ebano liscio e scuro e poggia su un manico in noce più spesso delle chitarre moderne e leggermente squadrato.
La paletta, in perfetto stile manuche, è ben lavorata e accoglie le meccaniche Schaller dorate e dalle chiavette in plastica.
Ha un aspetto decisamente retrò, piuttosto affascinante, ma anche essenziale, come richiede il genere musicale per cui è stata creata, ed è adatta ad essere suonata con vigore: volume discretamente alto ma note chiare e ben distinte caratterizzate da una sorta di riverbero naturale della cassa.
L'action non è proprio bassa, specie per chi viene dalle chitarre elettriche, ma può essere abbassata; tuttavia è lo stesso Hodson che sconsiglia di farlo. Questo, insieme al suo grosso manico e ai plettri spessi con cui devono essere pizzicate le sue corde, non la rende semplice da suonare. Tuttavia la 503 SR ti premia con le note che solo le migliori chitarre manouche sono in grado di produrre.